La sdraio a righe colorate. Oggi ho saputo della morte della signora C., un’anziana paziente in cura da un collega per un tumore all’intestino e che io ho seguito per anni per un pregresso ipertiroidismo poi trasformatosi in ipotiroidismo che prima di me non era stato adeguatamente trattato, nonostante una lunga trafila di endocrinologi mi avesse preceduto.
Dopo la prima visita, durante la quale mi aveva colpito per l’aria dignitosa ma dimessa, trascurata in alcuni dettagli come per un disinteresse per la realtà circostante, le ho prescritto la terapia sostitutiva e dato appuntamento per le analisi di controllo dopo sei mesi.
Con grande stupore l’ho ritrovata nel mio studio dopo meno di un mese, analisi alla mano, pronta per una nuova visita. Le analisi erano perfette ma la signora continuava a lamentare i sintomi più vari, vertigini, cefalea, nausea, tremori e sosteneva che la terapia non fosse adeguata alle sue esigenze.
Ho modificato appena la terapia ma ho intuito che c’era altro, qualcosa di doloroso e nascosto che l’affliggeva, così le ho chiesto con chi abitasse. “Sono vedova e dopo la morte di mia figlia vivo da sola…” ha detto, mentre sul viso le si dipingeva un’espressione di inesprimibile dolore.
Ho cominciato a comprendere il perché della sua presenza davanti a me: la necessità di trovare ascolto, conforto, una condivisione, e le ho chiesto cosa fosse accaduto. Sua figlia era una una brillante ragazza, la prima laureata della loro famiglia, molto intelligente e determinata, sposata da un paio d’anni, assunta da poco presso un importante ufficio statale e con una promettente carriera davanti a sé quando le era stato diagnosticato un tumore al polmone. Aveva effettuato vari cicli di terapia con buoni risultati ma dopo qualche tempo la malattia si era ripresentata in modo molto aggressivo. Dopo vari interventi, si era ricoverata in condizioni disperate in un ospedale sulla riviera adriatica, dove i medici avevano comunicato alla mamma e al marito che non c’era più alcuna speranza.
La signora C. ha iniziato a vegliare sua figlia notte e giorno e, in quell’ospedale poco lontano dal mare, un inserviente impietosito le ha dato una sedia a sdraio per riposare un poco, una di quelle sdraio a righe colorate che associamo alle vacanze, alle creme solari e alle formine dei bambini che giocano spensierati sulla spiaggia.
L’immagine di questa sdraio sgargiante, così inadeguata alla situazione, è un dettaglio che mi ha colpito – certe volte si sovrappone nella mia mente alle immagini del finale di Morte a Venezia per una assurda associazione di idee – e accompagnato dolorosamente tutte le volte, una volta al mese, nelle quali la signora C. è tornata da me in questi anni, lamentando inesistenti disturbi, per i quali io le ho prescritto la stessa terapia – Mi sento tanto meglio dopo ogni visita con lei, dottoressa-, per poi iniziare a parlarmi della malattia della ragazza, dell’attesa delle ultime ore di vita e di come sua figlia fosse morta proprio durante il breve tempo nel quale la signora C. era andata a riposare in una pensioncina lì vicino. “Credo che senza la mia presenza accanto, mia figlia si sia abbandonata alla morte, mentre io non c’ero lei è riuscita a andarsene.”
Sono passati tanti anni, ho ascoltato questo racconto molte volte e altrettante volte mi sono commossa insieme alla signora C., ho visto attraverso le sue parole quella inappropriata sdraio a righe colorate, vuota per poche ore, e ho pensato con dolore a questa giovane donna legata alla vita dall’amore di sua madre e che si è concessa di morire in un momento di solitudine.
In questa notte nella quale so che non vedrò più la signora C., e mi mancherà molto, la immagino accanto a sua figlia, forse sono in riva al mare su due sedie a sdraio allegre e colorate, finalmente di nuovo insieme, felici e in pace.