Dire cose che pochi sanno. Ieri ho visitato L., una paziente anoressica, ovviamente magrissima e molto pallida nonostante la stagione, bella della bellezza algida e distaccata di chi sta combattendo una battaglia senza più molta forza.
È arrivata scortata dai genitori che dopo pochi minuti ho fatto accomodare fuori dalla stanza, così siamo rimaste noi due l’una di fronte all’altra, la scrivania come sempre di mezzo, lì per unire e per separare.
Mentre mi parlava con grande serietà e dolore, mentre la maschera algida che aveva sul viso iniziava a sgretolarsi e mi diceva cose che so già per averle studiate – tanto simili e tanto diverse caso per caso -, per averle ascoltate da altre persone, per averle a volte provate anche io, mentre mi parlava pensavo quanto fosse bella nonostante l’aspetto emaciato, a quanto ciò che stava dicendo risuonasse dentro di me toccando corde profonde, a quanto dobbiamo conoscere noi stessi per fare questo lavoro e cercare di essere davvero utili a qualcuno.
Eravamo due persone addolorate una di fronte all’altra: una ragazza che si apriva concedendosi di essere fragile e spaventata e una donna che ascoltava concedendosi di essere fragile e spaventata dalla posta in gioco che stavamo mettendo sul tavolo, lei ha raccontato di sé, a un certo punto ha appoggiato la testa sulla scrivania e ha pianto silenziosamente e io sono stata zitta per il tempo che lei ha stabilito, poi le ho detto qualcosa di me che pochi sanno ma che era necessario condividere con lei in quel momento.
Non lo scrivo qui per dire quanto sono brava, no, lo scrivo per dire quanto è difficile, quanto chi ama questo lavoro debba mettere di se stesso nella cura e quanto faccia male ma sia essenziale, quanto noi medici dobbiamo essere pronti a far risuonare ricordi e dolori e a mettere ciò che sappiamo non solo della malattia ma della vita a disposizione dei pazienti, lo scrivo per dire quanto siano dolorose alcune malattie che apparentemente non si vedono ma che si esprimono nel corpo solo dopo tempo, in fondo tutte le malattie sono così.
Per alcuni minuti abbiamo risuonato dello stesso dolore e il passaggio del dolore dal suo corpo al mio è stato l’inizio della nostra storia insieme.
Poi ho fatto rientrare i genitori, ho detto loro che programma avevamo pensato con L per liberarla dalla gabbia dorata nella quale è ora, li ho supportati in alcune cose e fermamente arginati in altre, alla fine sulla porta L mi ha abbracciato fortissimo, quasi soffocandomi, lasciandomi senza fiato e dicendomi senza parole molte cose che sono fondamentali.
Iniziamo quindi questo percorso, so che non sarà facile e ci vorrà molto lavoro, ma la forza di quell’abbraccio può sostenere entrambe.