Eva che si chiamava Adamo. Un tempo Eva si chiamava Adamo e era imprigionata in un corpo che non sentiva proprio, un corpo sbagliato.
Quando l’ho vista la prima volta era un minuto ragazzo, dai tratti femminili e dai modi gentili, con il corredo cromosomico di un uomo e la convinzione di essere una donna.
Donne non si nasce, si diventa, sosteneva Simone de Beauvoir, io credo che sia vero, soprattutto da quando ho incontrato persone che hanno cambiato sesso, persone transessuali nel vero senso della parola e cioè che hanno transitato da un sesso all’altro, passaggio nel quale io li ho seguiti per la preparazione ormonale che precede e segue all’intervento chirurgico. Il mio lavoro mi ha consentito di entrare in contatto con un mondo che non conoscevo, lontano da un certo stereotipo di transessuale che è nell’immaginario collettivo e che è molto distante dalla realtà quotidiana delle persone.
Come faccio sempre in questi casi, ho avuto un lungo colloquio con Eva per capire la sua situazione, come si sentisse e cosa la spingesse a un percorso così difficile. “Molti pensano che io sia gay ma il problema non sono i miei gusti sessuali, il fatto è che io mi sento una donna. Io non mi riconosco in questo corpo, sento di non essere un uomo. I miei genitori non lo vogliono accettare ma io non posso fare diversamente” mi ha detto con la voce spezzata dalla disperazione.
Ricordo che mentre Eva mi parlava e piangeva io vedevo ancora solo un ragazzo, eppure molte immagini si sovrapponevano nella mia mente, ricordo di aver pensato a ciò che Michelangelo diceva delle sue statue – che non faceva che liberarle con lo scalpello dall’informe blocco di marmo nel quale erano contenute – Eva voleva in un certo senso liberare il proprio corpo, quello che riteneva essere il suo vero corpo, dal peso opprimente del marmo, io pensavo che molte volte il corpo è un pesante involucro che costringe o protegge, pensavo all’anoressia e all’obesità. “Sto già facendo il percorso psicologico che è richiesto per l’intervento, i medici devono essere certi che io non cambi idea ma io so di essere una donna, io non voglio più questo corpo che odio.”
Mentre continuavo a guardarla, lentamente ho iniziato a vederla non più con i miei occhi ma con i suoi, a riconoscere la donna nascosta in lei, come un volto femminile appoggiato a pesanti sbarre. Io sono molto fiera di alcune realtà sanitarie italiane, una delle quali è appunto il percorso cui faceva riferimento Eva, che porta dapprima alla diagnosi di Disturbo di identità di genere, oggi si chiama Disforia di genere, e che è necessaria per accedere al cambiamento di sesso tramite il Servizio Sanitario Nazionale. In parole povere non si tratta di persone omosessuali ma di persone che non si riconoscono nel sesso anagrafico e profondamente sentono di appartenere all’altro sesso, convinzione che viene ascoltata e poi assecondata dallo stato tramite un intervento chirurgico.
Abbiamo iniziato a vederci con regolarità, lunghi mesi nei quali Eva faceva il percorso psicologico e contemporaneamente assumeva antiandrogeni e estrogeni, aveva un aspetto sempre più femminile, i biondi capelli che ormai portava lunghi e il vestiario da donna, ricordo che abbiamo spesso parlato anche di vestiti perché Eva aveva gusto e raffinatezza nell’abbigliamento, vi assicuro che ormai avevo davanti a me una vera e propria ragazza, chic e femminile. È stato un periodo molto doloroso. Eva aveva documenti nei quali si chiamava ancora Adamo: immaginate le umiliazioni subite da chi non sa vedere oltre le apparenze e considera sbagliato ciò che non capisce, gli insulti di alcuni coetanei verso una persona dal sesso indefinito, la difficoltà di presentarsi a un colloquio di lavoro con questa dissociazione tra aspetto fisico e sesso anagrafico, la disapprovazione della famiglia, insomma la profonda solitudine di essere diversi dagli altri.
Di quel tempo ricordo il suo dolore eppure la determinazione incrollabile di volere essere donna, di fuggire da una identità che non sentiva sua, non vi nascondo che ho sofferto con lei, che l’ho ammirata e ho imparato molto sull’essere donna da questa gentile persona che con lo scalpello ormonale si stava inventando, passo dopo passo.
Dopo anni è arrivato il momento dell’intervento, come lei io ero molto emozionata e sono andata a trovarla durante la degenza. “Io sono nata due volte, festeggerò il mio secondo compleanno nel giorno dell’operazione” mi ha detto sorridendo con grande serenità, un’espressione che alle volte è sul volto delle donne che hanno appena partorito, come se tutto ciò che stava vivendo fosse quanto di più naturale potesse accadere.
Oggi Eva è sposata, lavora nel campo della moda, è una donna come tante altre, la vedo spesso per il bilanciamento della terapia ormonale sostitutiva e mi sembra impossibile di avere un tempo conosciuto Adamo, che Eva ha voluto abbandonare per vivere la sua vera identità, come una statua di Michelangelo.