La maratoneta della vita

La maratoneta della vita

La maratoneta della vita. Quando lavoravo al Policlinico ho conosciuto una paziente, la signora B, gravemente diabetica. Era una donna corpulenta per non dire obesa, immaginate una Sora Lella, la classica donna romana tutta cucina e famiglia, che aveva per anni trascurato la sua patologia riportando importanti danni vascolari.

La incontrai per la prima volta in chirurgia, dove aveva appena subito l’amputazione di una gamba a causa del diabete scompensato, il mio compito era correggere la glicemia perché la ferita potesse rimarginarsi e lei fare ritorno a casa.

La vidi quotidianamente per diversi giorni, e mentre le insegnavo come gestire le iniezioni di insulina, addestrando lei e i suoi figli, ebbi modo di conoscere la sua storia.

Aveva lavorato fin da bambina al mercato, una vita dura di sveglie all’alba per andare prima ai mercati generali, poi al lavoro nel banco di frutta e verdura a piazza Vittorio – storico mercato che oggi è stato trasferito ma che all’epoca era ancora nella piazza – dove aveva passato quasi tutta la sua vita, conosciuto il marito, lavoro oggi portato avanti dai figli.

Parlando avevamo ricostruito che conosceva mia nonna, che ricordava quella signora sempre curata che era stata gentile con lei e l’aveva aiutata quando aveva avuto bisogno di visite mediche, insomma si creò una familiarità che mi indusse a proporle di seguirla con la terapia anche al suo domicilio, almeno finché non fosse stata meglio sia fisicamente che psicologicamente.

Andai quindi a casa sua per circa un mese, al Villaggio Olimpico che non conoscevo affatto se non per sentito dire. Il Villaggio Olimpico è una struttura creata negli anni sessanta per accogliere gli atleti che arrivarono a Roma da tutto il mondo per le Olimpiadi, casette basse poggiate su piloni di cemento, una strana architettura adatta appunto a un soggiorno temporaneo.

Sorto in pieni Parioli, quartiere romano della borghesia bene di una certa agiatezza, il Villaggio Olimpico si trasformò a Olimpiadi finite, in un piccolo agglomerato di case popolare, come una scheggia di povertà fuoriuscita dai quartieri periferici, fuori luogo rispetto al contesto, che nessuno amava vedere ma che era tollerata.

Il Villaggio è ancora lì, le casette squadrate con i panni appesi sorte intorno a una piazza vuota che ricorda quelle di De Chirico, un bar e qualche negozietto qua e là, un posto che provoca un senso di irrealtà, come un cammeo di una città parallela.

Andavo a medicare la signora B, nello squallore di una casa meno che popolare, prendevamo il caffè insieme, una volta mi invitò a pranzo e ebbi modo di assaggiare una cucina romana che non si mangia neanche nel migliore ristorante – “Dottore’ er centro della famija è la tavola, se lo ricordi quanno c’avrà li fiji” – chiacchieravamo mentre la ferita guariva, il diabete si ricompensava e la signora B iniziava a compiere i primi passi con un minimo di autonomia finché la mia presenza non fu più necessaria.

La rividi per qualche tempo in ambulatorio poi non ne seppi più nulla.

Anni dopo ho incontrato il figlio che mi ha detto che la signora B era morta per un ictus, ma che fino alla fine era stata bene nonostante l’handicap dell’amputazione, che aveva continuato a cucinare e a occuparsi della famiglia.

Ancora oggi, quando passo vicino al Villaggio Olimpico, mi torna in mente quella signora corpulenta, la sua casa minuscola nella quale avevano vissuto degli atleti e che poi ha accolto una donna che è stata una maratoneta della vita.

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