L’eterno bambino. A. sembra un bambino ma ha quasi trent’anni, non è molto alto e ha un aspetto spaurito, disorientato, mentre entra a occhi bassi nel mio studio in compagnia di una donna anziana, lui è in silenzio mentre la signora inizia a parlare dirigendo la conversazione.
“A. ha la tiroide pigra, c’è ne siamo accorti quando aveva 6 anni, prende la terapia sostitutiva con ormoni tiroidei da allora ma da un paio di mesi sta male… un giorno è caduto per terra come senza vita, per poco muoio di paura io…”.
La signora è un fiume di agitazione in piena mentre A. guarda in terra senza dire una parola, ha il volto liscio di un bambino e ogni tanto mi guarda di sfuggita, mentre la signora mi racconta della visita neurologica, del referto dell’elettroencefalogramma e della ampia zona temporale nella quale la corrente elettrica che costituisce la nostra mente compie un corto circuito, la signora continua a parlarmi mentre io guardo questo uomo che sembra un bambino, poi gli sorrido e lui improvvisamente mi sorride di rimando, ci stiamo sorridendo e stabiliamo un contatto che sembra far rallentare le parole della signora.
“Mi racconti con ordine del problema tiroideo di suo figlio” le chiedo “Mi parli della sua vita, è andato a scuola? Ha lavorato?”. Lei ha un’espressione di dolore sul volto “Dottore’, non è mio figlio…” mi dice con le lacrime agli occhi “È figlio di mio fratello, sono anni che non lo vediamo, sua madre è morta di cirrosi epatica perché beveva…”.
È una tarda mattinata di un autunno che sembra estate, io sono nel mio studio e ho davanti a me un uomo bambino e una donna precocemente invecchiata, ho una storia di dolore che vuole essere narrata e deve essere ascoltata, una storia di dolore che inizio lentamente a comprendere.
A. è rimasto orfano di madre a un anno, il papà lo ha abbandonato ed è stato affidato per due anni a una casa famiglia. Un giorno la zia, sorella del padre, la donna che ho davanti, è andata a cercarlo e lo ha trovato in condizioni disperate: sporco, trascurato, denutrito e disidratato, così ha deciso di prenderlo con sé, di crescerlo lei.
Dopo qualche tempo ha inserito il bambino a scuola ma A. era assente, distratto oltre a presentare un evidente ritardo di crescita, che per un paio di anni la signora ha attribuito alla sofferenza dell’abbandono.
Poi la diagnosi: un severo ipotiroidismo, un rallentamento della tiroide non diagnosticato che ha provocato un ritardo mentale irreversibile.
A. ha adesso 30 anni, ha raggiunto la terza media con un sostegno, ha fatto rari lavori saltuari, oggi presenta anche epilessia che il neurologo ha attribuito alla conseguenza di un danno cerebrale, probabilmente da percosse avvenute negli anni trascorsi nello stato di abbandono nel quale lo ha trovato la zia.
Danno cerebrale da ipotiroidismo non trattato, danno cerebrale da sindrome fetoalcolica, danno cerebrale da percosse, danno cerebrale da abbandono, danno cerebrale da solitudine e dolore.
Tutto questo dolore seduto su una sedia in uno studio medico, davanti a una sconosciuta che sono io, accanto a una zia che lo ha salvato quando era però tardi per molte cose.
Io ho corretto la terapia, ho ascoltato le tante parole della zia e le poche parole di A., gli ho chiesto di darmi notizie sulla terapia neurologica e sul prossimo incontro con il neurologo, quando sono andati via ho guardato fuori dalla finestra in questa estate che non vuole finire e ho pensato a un bambino solo e malato, senza madre e senza cura, ho provato a immaginare questo eterno bambino e neanche il sole caldo di oggi è riuscito a scaldarmi dal gelo che ho provato dentro.