Una persona disabitata. La signora M. era una donna battagliera e tenace, una di quelle pazienti delle quali dovevi continuamente conquistarti la fiducia con competenza e esperienza perché metteva alla prova con mille domande spesso provocatorie. Fece lo stesso anche con me, mi testò in varie visite e poi mi accordò la sua stima, che era da parte mia assolutamente ricambiata. Vedova da anni, aveva cresciuto tre figli, che si davano il turno per accompagnarla alle visite di controllo, aveva per anni lavorato come segretaria di un famoso avvocato, del quale aveva organizzato vita pubblica e personale, rendendosi insostituibile.
La signora M veniva in visita attrezzata di ecografie recenti e passate – aveva un gozzo tiroideo con molti noduli da tenere sotto controllo – analisi del sangue effettuate seguendo la mia prescrizione che aveva ordinatamente conservato in una apposita cartella, insomma era molto organizzata e presente a se stessa.
Un paio di anni fa arrivò senza i controlli richiesti, munita di cartellina ma senza alcuna analisi recente. “Credo di averle fatte ma non so dove siano” mi disse stupita quanto me dalla situazione. “Devono essere a casa” ma a casa non erano perché i figli ricostruirono che non le aveva mai fatte. Con stupore e angoscia cominciarono a notare piccole mancanze: una data di compleanno dimenticata, oggetti messi via in posti sbagliati, una certa trasandatezza nel modo di vestire in una donna sempre perfettamente curata, una difficoltà a orientarsi in luoghi che le erano familiari. Quando non riconobbe il viso di un amato nipote in una fotografia che lo ritraeva bambino, fu evidente che qualcosa di grave stava accadendo.
La diagnosi potete immaginarla già: morbo di Alzheimer, questa terribile demenza che priva le persone della memoria rendendole estranee a se stesse e a coloro che gli sono intorno.
Alla visita successiva notai che era molto cambiata, stanca e opaca, come se una patina di polvere le fosse caduta addosso, parlammo come sempre di terapia e analisi, portate questa volta dalla figlia, mentre io cercavo di interagire con lei e ritrovare quella familiarità che si era creata tra noi. Lei mi sorrise, mi disse qualcosa dei figli poi iniziò a guardarmi restando perfettamente immobile. Non riesco a descrivervi ciò che vidi sul suo viso ma la parola che più si avvicina è: vuoto. Rimase a fissarmi senza espressione per alcuni secondi e io non riuscì a vedere nei suoi occhi ciò che conoscevo: il guizzo di intelligenza, la storia della sua vita condivisa tra noi, la consapevolezza di una donna abituata a abitare la vita con grinta e capacità. Niente, in quei lunghi secondi nei quali ci fissammo senza parlare ebbi la terribile sensazione di avere davanti una persona svuotata di se stessa.
Poco tempo dopo la incontrai che vagava nei pressi della clinica, completamente confusa e disorientata così mi chiamai il figlio che venne a prenderla per riportarla a casa, non mi riconobbe e fu piuttosto aggressiva sia con me che con lui, non riconosceva più neanche suo figlio. Era diventata una persona estranea al mondo, che le appariva sconosciuto e temibile, una persona deprivata del passato e costretta a vivere in un presente alieno, senza punti di riferimento e senza radici.
Visito ancora la signora M, la accompagnano da me i figli cercando di conservare al meglio il corpo della madre, il corpo di una persona ormai assente e disabitata, corpo che è solo il simulacro della donna che conoscevamo, una sorta di tomba vivente.
Ogni volta che la incontro mi domando chi sia la persona abbandonata che ho davanti, dove sia andata quella donna vivace che avevo un tempo conosciuto, come sia possibile che ciò che crediamo essere il nostro unico e irripetibile spirito sia solo il frutto di scambi di trasmettitori tra neuroni, di sinapsi che possono non essere più collegate creando una morte in vita.
Ogni volta che la vedo mi domando cosa renda un essere umano l’individuo straordinario che ognuno di noi è, con le sue caratteristiche e i suoi difetti, con la sua originale personalità e la risposta che mi do oggi è: la memoria.
Ogni volta che la visito – è un dolore indescrivibile – spero che da qualche parte dentro di sé, in una zona remota del suo cervello, lei si ricordi di me e avverta la mia presenza.